Provate un po’ a immaginare questo ambiente. Non dal punto
di vista della natura, ma dal punto di vista dei vostri compagni di tutti i
giorni.
Durante la giornata questo centro è frequentato da più di
1000 persone, fra studenti, insegnanti, impiegati, personale dell’ospedale,
giardinieri, tipografi, ceramisti e attualmente operai dei lavori di
ristrutturazione.
Di italiani ci siamo io, Ica, Monica e Sara (che andrà via
fra 4 giorni!). Tre giorni alla settimana viene un’altra volontaria italiana,
Giovanna, che è qui da parecchi anni, tanto che ha messo su famiglia. È sposata
con un nero e ha una figlia e parenti camerunesi. Ma, residenti qui con gli
altri 1000 siamo in tre: le classiche (è proprio il caso di dirlo) mosche
bianche.
Sei così circondato da pelle nera, che non fai fatica a
dimenticarti che sei diverso. Poi c’è sempre qualcosa che te lo ricorda: certi
sguardi, certi atteggiamenti, certa deferenza (questa è la cosa che mi dà più
fastidio!).
Tu, bianco, non ti senti diverso da loro: lavori, ridi,
scherzi, parli, racconti i fatti tuoi, ti preoccupi, ti stanchi nello stesso
identico modo. Approvi un lavoro, ne contesti un altro, proponi qualcosa di
diverso, confronti le tue idee con i tuoi collaboratori, chiedi spiegazioni, ti
fai ripetere le cose perché hai perso qualche vocabolo, ti sfugge
un’imprecazione in italiano o in dialetto.
Ma ti accorgi che per gli altri, tutti gli altri, sei diverso:
sei straniero e per giunta bianco!
E questa diversità, questa differenza, te la porti dietro e
non ti lascia e non ti lascerà mai. E per Ica è forse peggio: non solo è
straniera e bianca, ma è anche donna. E su questo aspetto cultura e tradizione
non sono proprio per la completa uguaglianza dei sessi!
Quando qualcuno si comporta in maniera tale da rimarcare
questa diversità, ti viene la mosca al naso (ancora le mosche!) e fai fatica a
trattenerti dal rispondere male. Ma questo l’ho già detto in un altro post.
Però c’è anche l’altro aspetto: quando ti senti trattato
come uno di loro, quando qualcuno, per farti piacere e non per sarcasmo, ti
saluta con un buongiorno o buonasera spiaccicato in italiano stentato. O ti
chiede dove sei stato, perché non ti ha visto per qualche giorno. Allora ti
sembra di essere come loro, almeno fino alla prossima volta.
E continuando a vivere con loro sempre di più ti accorgi che
non ci sono poi queste grandi differenze, che tutti ci comportiamo nello stesso
modo. Forse qui in maniera, come dire, più immediata e sanguigna.
Ho approfittato dei lavori di ristrutturazione per fare un
piccolo lavoro nel muro divisorio fra il mio ufficio e quello dello studio di
grafica: c’era una bella crepa, passante, che correva lungo tutto il muro,
orizzontale. Ci passava senza fatica un foglio di carta e in un paio di punti
una matita. Era proprio il caso di aggiustarla! È venuto il muratore che sta
facendo tutto il muro di cinta del complesso e ha detto che era lavoro di un
weekend: da venerdì pomeriggio a domenica sera. E sì, perché questo, che ha
radunato intorno a sé una squadra di una dozzina di persone, lavora dalle sei
di mattina alle sei di sera, per sette giorni alla settimana. E lo stesso fanno
quasi tutti i suoi operai. Qualcuno non lavora di domenica e lui non lo
obbliga. È molto cordiale con i suoi operai, ma non ammette prese in giro o
perdite di tempo. Quel lavoro di un weekend è diventato ormai lavoro di dieci
giorni: pensava di rifare la parte alta del muro, ma rompendolo si è accorto
che il vecchio muro era troppo sottile e il solo movimento della porta,
ripetuto, lo avrebbe rotto un’altra volta. Quindi hanno buttato giù tutto il
muro, tolto la porta, ricostruito un muro più spesso, inframmezzato da tre
pilastrini in cemento armato. Cambiando di pochissimo il preventivo.
Quasi sempre ci lavora un muratore dell’equipe (le lettrici
di questo blog lo guarderebbero con piacere!) di 31 anni, che si porta dietro
il figlio piccolo: evidentemente non sa dove lasciarlo. ‘Sto bimbo avrà sì e no
2 anni, sta lì, vicino al suo papà, un po’ lo guarda, un po’ gioca con i
pezzettini di macerie, un po’ si sdraia su una panca e dorme e il suo papà ogni
tanto gli dà un’occhiata o lo cambia se, per caso, si è bagnato. L’altro
giorno, durante la pausa-pranzo (ben 30 minuti!), li ho visti andare verso un
baracchino che vendeva banane: il papà davanti, con l’elmetto di protezione in
testa e le mani dietro la schiena; il bimbo due passi indietro, senza elmetto,
ma con le mani rigorosamente dietro la schiena!
Per fare il lavoro nel mio ufficio, sono stati presi due
ragazzi avventizi (e molto precari) per portare il materiale con la carriola,
spostare le macerie, insomma i classici lavori di fatica. Un giorno è arrivato
il capo e questi due erano seduti sui gradini a far niente. Non ci sono state
scene, soltanto “voi due potete tornarvene a casa e non venire più”. Poi è
andato dal suo collaboratore (il muratore papà) e gliene ha cantate quattro.
Infine è tornato verso di me, si è scusato del ritardo e mi ha ringraziato,
perché, durante la sfuriata, mi sono allontanato “così non lo ha umiliato di
più”. A dirla tutta, io mi ero allontanato per altri motivi, ma è stata una
fortunata coincidenza. E ho imparato ancora qualcosa. I comportamenti sono più
immediati e sanguigni, ma anche qui occorre salvaguardare dignità e orgoglio.
Probabilmente mercoledì riuscirò a rientrare in possesso del
mio ufficio e sarà un piacere avere ancora un posto dove fare il mio lavoro
principale e più importante (direttore del Centro d’Arti Applicate) e sedermi
ogni tanto.
A quanto pare, però, muovermi mi fa bene: se continua così,
fra poco mi basterà abbassare gli occhi per vedere la fibbia della cintura!
Alla quale ho già dovuto fare qualche buco aggiuntivo.
A presto. Ma solo attraverso il blog.
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