La prima volta che abbiamo messo piede in Cameroun è stato un
po’ più di un anno fa, per la precisione il 17 aprile.
E ho cominciato a scrivere questo blog. Un po’ per
raccontare ad amici e parenti ciò che succede qui, per tranquillizzare i più
ansiosi, per condividere la nostra esperienza. E un po’ per ricordare, mettendo
nero su bianco emozioni e impressioni.
Un anno in Cameroun. È vero, ci sono stati un paio di
intervalli. Il primo è durato giugno e luglio del 2013, quando siamo tornati a casa
per comunicare al COE che avevamo preso la decisione di tornare e fermarci,
preparare la nostra partenza, sistemare e chiudere casa per tre anni. Il
secondo a ottobre, per accogliere Nina, la nostra super-nipotina.
Ma sono stati degli intervalli. Siamo in Cameroun da metà
aprile 2013 e ora è giugno 2014.
Cosa è successo nel frattempo?
Certo, nuove esperienze, nuove conoscenze, nuovi entusiasmi
e nuove delusioni (rimpiazzate da altri entusiasmi). Soddisfazioni e problemi.
Un po’ di nostalgia ogni tanto. Il desiderio, a volte, di tornare indietro.
Soprattutto quando succede qualcosa per cui vorresti essere lì, di persona, e
non a 7000 km di distanza tramite internet o skype.
Ma, di fatto, cosa diavolo stiamo facendo qua?
Prendo a prestito una frase di un grand’uomo (e prete) che
ci ha lasciati da poco: stiamo ridefinendo la nostra vita. Forse dovrei parlare
al singolare, perché queste esperienze vengono vissute da ognuno in maniera
differente e non ho il diritto di parlare a nome di mia moglie, anche se credo
che condivida i miei pensieri.
Dopo un anno ti accorgi che sei molto più ignorante di quello
che credevi. Pensavi di sapere tante cose e tocchi con mano il fatto (non il
pensiero, il fatto) che quello che sai è una piccola frazione di quello che non
sai.
“Vado a fare il volontario in un paese in via di sviluppo.”“Sono un missionario laico. Certo, vado a fare qualcosa di pratico, a trasferire un po’ di know how, ad aiutare lo sviluppo di quel paese; ma portando la testimonianza della mia fede.”
E sono due affermazioni importanti e, forse, un tantino
presuntuose.
Cosa vuol dire “paese in via di sviluppo”? E quale sviluppo?
Quello che intendiamo noi, noi italiani, noi occidentali, noi che ci
consideriamo già “sviluppati” e che stiamo mettendo in dubbio le modalità e
finalità del nostro sviluppo? Noi che incominciamo a diffondere la teoria della
“decrescita felice”?
Ma “noi” portiamo il nostro sviluppo.
E se non lo volessero?
Parlare di sviluppo mi fa venire in mente i bambini/ragazzi
che crescono: anche loro sono “in via di sviluppo”.
Ed è il periodo in cui ne combinano di tutti i colori, in
cui sono sgraziati e non sanno ancora come muoversi, in cui ancora non hanno
preso le misure del loro corpo e tantomeno del loro pensiero. Spesso sono
goffi, imbranati, super eccitati, mai fermi. E sono o troppo tondi o troppo
lunghi. E magari sono anche pieni di brufoli. E, nei ragazzi, non sai mai se la
voce della mattina sarà uguale a quella della sera.
E, soprattutto, non
riconoscono più la tua “autorità”. E questo ti fa un po’ imbufalire e cerchi di
rimediare imponendola: “abbi rispetto di chi è più grande di te!” “devi fare
così perché sì e basta!” “non c’è bisogno di un perché, te lo dico io e questo
è sufficiente!”. Naturalmente, il risultato è normalmente il contrario di
quello che si voleva ottenere.
Adesso, fate un esercizio mentale. Immaginate che qualcuno
vi si rivolga con le stesse frasi oggi che siete adulti. E magari quel qualcuno
non è né vostro padre, né vostra madre: è un perfetto estraneo, diverso da voi,
che parla con difficoltà la lingua del paese dove vivete, addirittura non
conosce la vostra vera lingua, che conosce poco il vostro ambiente e che ha un
modo di ragionare totalmente diverso dal vostro. Inoltre, gode di un mucchio di
privilegi. Quale sarà la vostra reazione? Di pacata accettazione? Di estrema
riconoscenza? Ve lo ricordate Fantozzi? “come è buono lei!!!”
Allora: quale sviluppo? Quello che fa comodo a chi è già
sviluppato o quello che cerca chi ancora si sta faticosamente costruendo il suo
futuro?
Quale tipo di sviluppo vuole un paese che è grande una volta
e mezza l’Italia e ha un terzo dei suoi abitanti? E ha un PIL di 25 miliardi di
dollari, contro il PIL italiano di 2.000 miliardi di dollari. E prendeteli
soltanto come numeri, da confrontare fra loro. Non pensiamo a cosa
effettivamente rappresenta il PIL, se è giusto o no. È soltanto un metro di
paragone. Se (se) il PIL di un paese rappresenta la ricchezza prodotta, ogni
italiano produce 33.333 dollari all’anno. Ogni camerunese ne produce 1.785,
poco più di un ventesimo.
E se in Italia ci lamentiamo giustamente dell’eccessivo
divario esistente fra le classi agiate e quelle che fanno fatica ad arrivare
alla fine del mese, bisogna rendersi conto che quel divario, qui in Cameroun, è
molto più ampio.
E questi pochi numeri (ripeto: da prendere soltanto come
metro di misura e confronto) non sono soltanto numeri asettici, senza
significato. Portano una serie di conseguenze.
Torniamo al paragone col ragazzino in via di sviluppo. Se ho
i mezzi per mandarlo a fare sport, danza o ginnastica; se ho la possibilità di
fargli vedere qualcosa oltre le quattro mura di casa; se ho la possibilità di
farlo studiare bene e di fargli imparare qualche lingua straniera, il suo sviluppo
sarà migliore e più veloce, imparerà a muoversi, imparerà a crescere, imparerà
ad essere curioso, a leggere, a informarsi. Ma se non ho la possibilità di
tutto ciò, il suo sviluppo sarà forzatamente più lento o cercherà strade più
facili e non sempre corrette.
E la stessa cosa vale per un paese: se le risorse a disposizione
sono poche, poche saranno le strade, i mezzi di trasporto, le scuole, gli
ospedali, le industrie e tutto ciò che (nonostante le teorie della decrescita
felice), fa crescere e sviluppare un paese.
Ma abbiamo visto che il nostro modello di sviluppo è in
crisi, quindi dobbiamo insegnar loro a svilupparsi in maniera più semplice e
naturale. “dobbiamo insegnar loro”? e chi ci ha dato questo incarico? Quale
autorità abbiamo per imporre il nostro stile di vita o i nostri errori e le
nostre presunte correzioni a quegli errori?
O vogliamo dire che se possiamo “esportare la democrazia”,
possiamo esportare anche il corretto modo di vivere? O forse il fatto che il
nostro sviluppo sia più avanzato di quello del Cameroun ci autorizza a fornire
“pressanti consigli” che il Cameroun farebbe bene ad accogliere senza riserve?
Ma allora noi dovremmo accettare con riconoscenza i
“pressanti consigli” che ci vengono da Germania, Europa e altri paesi con uno
sviluppo più avanzato ( o soltanto più ricco) del nostro. E invece, siamo molto
insofferenti a questi consigli. Ma ci meravigliamo se altri sono insofferenti
ai nostri.
E torno alla mia personale affermazione: “vado a fare il
volontario in un paese in via di sviluppo”. Pensavo di essere in grado di dare
una spiegazione. Dopo un anno, ho capito che devo ancora imparare molto. Quando
avrò le idee più chiare, ve lo farò sapere.
“Porto la testimonianza della mia fede”.
Altra affermazione importante. Anche i camerunesi portano la
testimonianza della loro fede. Che spesso è uguale alla mia, ma espressa in modo leggermente diverso. E altrettanto
spesso è invece differente.
In un paese come l’Italia, in gran parte cattolico (almeno
di nome), non è difficile testimoniare la propria fede: a volte è sufficiente
volerlo fare. In un paese multi-religione è molto più difficile. Anche perché a
volte devi rispondere a domande imbarazzanti.
In Africa esiste ancora la poligamia: molto meno frequente
di quanto si crede e limitata ad alcune etnie, più che ad alcune religioni.
Ma quando qualcuno ti fa presente che anche il fatto di
tradire il proprio partner è una forma di poligamia, cosa rispondi? Che il
matrimonio ufficiale è uno solo e con un solo partner? Certo: con un solo
partner “per volta”. Certo, è una questione di forma. E la sostanza?
O ti chiedono perché siamo così contrari al fatto che la
religione sia così importante politicamente nei paesi musulmani, visto che
anche in Italia esiste la religione di stato. E io correggo: in Italia non
esiste la religione di stato. E aggiungo, un po’ sottovoce, dal 1984. Senza
specificare che ci sono voluti altri 5 anni per raggiungere un’ufficialità
senza ricorsi. Formalmente, in Italia non esiste la religione di stato da ben
25 anni! E nella sostanza?
Altra domanda: e se non esiste una religione di stato,
perché nelle scuole c’è sempre il crocefisso? E spieghi che la maggioranza
degli italiani è favorevole a questa
tradizione e che non c’è imposizione alcuna, ma ti accorgi che incominci ad
arrampicarti sui vetri ( a proposito e per chi non lo sapesse: il ricorso alla
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’esposizione del Crocefisso nelle
scuole non è stato fatto da un musulmano immigrato, ma da una finlandese atea naturalizzata
italiana. Ma per alcuni fa più gioco far pensare che sia tutta conseguenza
dell’immigrazione musulmana).
E devi pur dire che in alcuni paesi europei, considerati
anche i più avanzati sotto il punto di vista dei “diritti civili”, esiste la
religione di stato di origine cristiana. Come per esempio Inghilterra,
Norvegia, Danimarca. Se non vogliamo parlare di Malta, Grecia, Islanda, Monaco
e Liechtenstein. O, fuori dall’Europa, di Argentina, Costa Rica, Repubblica
Dominicana o Salvador. E devi anche prendere atto che, rispetto al totale dei
paesi a maggioranza musulmana, sono relativamente pochi quelli dove è imposta
una religione di stato.
E allora devi riportare la chiacchierata soltanto sui
contenuti e non sulle forme. E ti chiedi se sei tu a dare testimonianza di fede
o sono due tuoi colleghi, entrambi cristiani ma uno cattolico e l’altro
ortodosso, che insieme conducono la Via Crucis.
E, dopo un anno, ti accorgi che hai preso molto più di
quanto hai dato, se sei riuscito a dare qualcosa.
Certamente, un po’ più di organizzazione aziendale, un po’
più di tecnica commerciale, un po’ più di reciproca confidenza e un po’ più di
reciproco rispetto. E, per alcuni aspetti, è già tanto.
Vedremo cosa succederà il prossimo anno.
Quella che poni è un'annosa questione e, a mio parere, da qualsiasi punto tu la guardi, trovi sempre un pro e un contro
RispondiEliminaall'intervento. Anche quando l'intenzione è nobile.
Giovanna