martedì 30 giugno 2015

Sembra facile.

Basta immigrati!!!
Cosa vengono qui a fare??? Non c’è lavoro neanche qui!!!
E lo portano via a noi!!!
Siamo invasi!!!
Fuggono dalla fame e dalla miseria? Spendendo un capitale per il viaggio e portandosi dietro cellulari, tablet e anelli d’oro!!!
Anche i nostri nonni sono emigrati, ma nessuno li ha mantenuti in hotel a cinque stelle!!!
E cercavano lavoro, mica arrivavano per fare i delinquenti!!!
Non facciamoli arrivare! Aiutiamoli a casa loro!

Queste sono una parte delle tante esclamazioni che si sentono ogni giorno o che si leggono su Facebook  o che vengono utilizzate a fini elettorali.
E sono le più innocue e le meno violente. Perché ci sono persone che invocano pene esemplari per  chi maltratta un animale e, nello stesso momento, si augurano che vengano ripristinate le camere a gas per gli immigrati.
Sono talmente incoerenti queste persone (senza attribuire loro altre qualifiche) che non si rendono conto di una semplice contraddizione: per loro, gli immigrati non sono esseri umani, sono parificabili alle bestie. Quindi, se invocano annegamenti, camere a gas, lanciafiamme, ruspe, stanno maltrattando degli animali e dovrebbero subire le stesse pene esemplari.

Lasciamo perdere le prime esclamazioni (la mancanza di lavoro, l’invasione, la presunta ricchezza, la presunta delinquenza, gli alloggi prestigiosi e gratuiti): basta leggere e informarsi per rendersi conto che sono stupidaggini che non hanno un briciolo di fondamento.

Ma è anche vero che, comunque, l’immigrazione è un fatto ancora anomalo (almeno nelle dimensioni) che deve essere seriamente affrontato nella ricerca delle soluzioni più adeguate a chi emigra e a chi accoglie. Ma si dovrebbe almeno prendere coscienza di una verità assoluta: l’emigrazione/immigrazione non può essere eliminata, bisogna imparare a conviverci, perché sarà sempre più diffusa e riguarderà tutti i paesi del mondo.

Il Cameroun è uno dei paesi dai quali arriva una piccolissima parte degli immigrati: paese in via di sviluppo, con una economia che fatica a decollare, con una “democrazia” un po’ limitata (almeno secondo i nostri occhi) e con altre particolarità che possono essere riassunte dal confronto di questi dati:


Italia
Cameroun
Tasso di mortalità infantile
3/1000
60/1000
Aspettativa di vita
82 anni
58 anni
Tasso di disoccupazione
12,4% (aprile 2015)
30% (2014)

Questi sono soltanto dati statistici, freddi e impersonali. Che forse hanno bisogno di una spiegazione più concreta.

Il tasso di mortalità infantile ci dice quanti neonati, su 1000 nati vivi, muoiono entro l’anno di vita. Altre statistiche prendono a riferimento gli stessi dati, ma calcolandoli fino al quinto anno di età.
Cosa significa nella realtà?
L’Italia è al 5° posto nel mondo di questa classifica: ogni 333 bimbi nati vivi, uno purtroppo muore. In Norvegia, la prima in classifica, questo rapporto diventa 500 a 1.
In Cameroun, invece, succede che muore un bimbo ogni 17 (diciassette!) nati vivi. Quasi nessuno, in Cameroun, va a leggere queste statistiche. Non ne hanno bisogno. Ne hanno sempre un’esperienza diretta. Per noi, nella stragrande maggioranza dei casi è un’esperienza riportata, sovente riferita a persone che neanche fanno parte della nostra cerchia familiare. Qui è un’esperienza che ti tocca molto da vicino. Spesso è tua.

L’aspettativa di vita ci dice quanto può sperare di vivere un bimbo nato oggi. In Italia, 82 anni (con la solita differenza fra maschi e femmine). In Cameroun, 58 anni. Naturalmente, è una media statistica: ci sono camerunesi di 80 o 90 anni. Vuol dire, semplificando, che per ogni camerunese di 90 anni vivo, un altro è morto a 26 anni.

Incominciamo a prendere questi due dati. Quanti sarebbero, in Italia, gli aspiranti genitori o i neo-genitori che incomincerebbero a pensare di andare a vivere in un paese (diversissimo dal proprio) dove i loro figli possano avere maggiori speranze di vita? Di semplice VITA, non comoda, né facile, né ricca: soltanto VITA!

Del tasso di disoccupazione forse non devo dare spiegazioni: lo conosciamo bene tutti noi. In tutti i paesi del mondo, la percentuale dei disoccupati è calcolata sulla “forza lavoro”. In quest’ultima non rientra tutta la fascia di soggetti che, ad esempio, per limiti di età non è considerata forza lavoro: in Italia i minori di 16 anni e i maggiori di 65 (o 67?); sono compresi tutti quelli che, attivamente, ricercano un lavoro e sono esclusi tutti quelli che, per scoraggiamento o perché non ne sentono il bisogno, non lo cercano. Occorrono informazioni, dati, notizie per arrivare a calcolare in maniera corretta il tasso di disoccupazione. Quante meno sono tali informazioni, tanto più approssimativo è il calcolo.
In Cameroun molte di queste informazioni mancano o sono imprecise.
Poi bisogna valutare anche la qualità del lavoro. Giustamente, in Italia ci si lamenta della precarizzazione: precario è chi ha il lavoro oggi, ma non è sicuro di averlo anche domani. Una questione un po’ diversa dalla flessibilità, con la quale si intende la possibilità/capacità di trasferirsi da un posto di lavoro ad un altro, senza cadere nella precarietà. Ma il discorso si farebbe lungo e complicato, con pro e contro di tutti i tipi.
Si può comunque dire che, statisticamente, in Italia ancora oggi sono numericamente più frequenti le condizioni di stabilità/flessibilità che quelle di precarietà.
In Cameroun è esattamente il contrario: sono estremamente più frequenti i lavori precari e instabili; sono molto più frequenti i lavori “sommersi”, tanto che un’aziendina come quella che dirigo si fa un punto d’onore di scrivere sui depliant che i lavoratori sono tutti regolarmente assunti e non viene utilizzata mano d’opera minorile. E succede anche che se vai a proporre a un tuo dipendente la stabilizzazione del rapporto di lavoro, lui cortesemente rifiuta, perché preferisce restare “libero”.
Anche i lavoratori con contratto a tempo indeterminato hanno qualche differenza con i nostri: pagano molte meno tasse e molti meno contributi. Fortunati, vero?
Beh, potete fare cambio, se accettate anche le altre condizioni:
  • nessuna assistenza sanitaria gratuita, né per voi, né per i familiari a carico;
  • pensione molto più bassa della nostra, se arrivate a godervela;
  • permessi retribuiti solo in caso di matrimonio (3 giorni); maternità della moglie (3 giorni); morte di un parente diretto (3 giorni); morte di un parente collaterale (2 giorni); matrimonio di un figlio, o fratello o sorella (1 giorno);
  • nessun permesso per malattia;
  • massimo di 15 giorni di permesso annuali, non retribuiti: recuperabili con lavoro supplementare o direttamente decurtati sullo stipendio; viene quasi sempre adottata la seconda soluzione;
  • 18 giorni di ferie per anno di lavoro, aumentati di due ogni 5 anni di anzianità; le mamme godono di 2 giorni supplementari di ferie per ogni bambino inferiore a 6 anni;
  • straordinari riconosciuti a discrezione del datore di lavoro, a forfait.

Però pagano meno tasse e meno contributi!!!

Anche in questo caso, fate un esempio pratico per capire meglio la situazione: vi viene l’influenza e state a casa per una settimana. Pagate il medico, pagate le medicine e prendete una settimana in meno di stipendio.

Comunque, secondo le statistiche, in Italia è disoccupato un lavoratore su 8; in Cameroun 1 su 3. Ma non è che gli altri due se la passino molto bene.

E stiamo parlando del Cameroun che, nel panorama dei paesi africani è uno di quelli che sta meglio e non soffre di grosse tensioni politiche né tantomeno, di guerre.
Per questa situazione complessiva, non sono molti i camerunesi che emigrano. Ma sono invece molti gli immigrati in Cameroun. Provengono dai paesi circostanti, persone che fuggono dai loro paesi in guerra.
Moltissimi, al nord, sono i rifugiati nigeriani che fuggono dalla guerriglia di Boko Haram, dalla distruzione dei loro villaggi, dalla quasi certezza di morte violenta; altrettanti provengono da Ciad o Centrafrica o Congo, per guerre civili o altre violenze; altri da altri paesi, perché cercano migliori (!) condizioni di vita.
Eppure, qui nessuno si scaglia contro l’immigrazione (più elevata che da noi, in rapporto alla popolazione), nessuno parla di invasione; nessuno fa comizi a fianco di una ruspa.
Forse perché fra autoctoni e immigrati non c’è nessuna differenza di colore e quindi gli immigrati si confondono con il resto della popolazione?
Vi sbagliate. Io (e credo anche voi) non sono capace di distinguere un nero dall’altro: per me sono tutti uguali.
Anche per i camerunesi succede la stessa cosa: quando vedono un bianco, la prima scelta è che sia francese, poi italiano, o inglese o tedesco. I bianchi sono tutti uguali.
Ma, nello stesso  modo in cui noi sappiamo abbastanza bene distinguere un francese da un inglese o un tedesco, altrettanto bene o forse meglio i camerunesi sono in grado di distinguere i differenti appartenenti ad altri paesi africani.
Loro sanno se la persona che hanno di fronte è camerunese, o nigeriana, o ciadiana o altro.
Ma sanno anche che la gente si muove, si sposta da un paese all’altro. E lo fa per motivi importanti o gravi. O anche soltanto per cambiare aria. E non si sognano nemmeno di respingere qualcuno, soprattutto se fugge dalla violenza o per salvarsi la vita. Certamente, anche qui ci sono misure di controllo dell'immigrazione, ma non ne fanno nè un dramma, nè una tragedia.

E allora torniamo alle esclamazioni dell’inizio, quelle che invitano, sollecitano, impongono di non accettare più immigrati, perché sono troppi, perché ci invadono, perché sono sporchi, perché non si integrano, perché sono delinquenti, perché vivono alle nostre spalle, perché, perché…
A mio parere, sono tutti “perché” che nascondono la vera motivazione: perché fanno paura.
Paura di perdere tutti i privilegi che abbiamo rispetto a loro; paura di doversi confrontare con qualcosa di sconosciuto e rischiare di di risultare inadeguati; paura che il “nido” che ci siamo costruiti anno dopo anno ci venga mostrato nella sua vera essenza di tana dove nasconderci; paura di non essere più capaci di competere con chi ha più stimoli, più incentivi, più fame di noi.
Paura che la conoscenza vera delle reali condizioni di una rilevante parte del mondo ci spinga finalmente a chiederci: perché io sono nato qui e loro sono nati là?

Occhio non vede, cuore non duole. Come i bambini, nascondiamo la faccia dietro le mani, di fronte a qualcosa che ci spaventa. E noi nascondiamo gli immigrati: ruspa!!!
E poi scriviamo la citazione di Falcone: chi ha paura muore tutti i giorni, chi ha coraggio muore una volta sola.

Eccola la soluzione: aiutiamoli a casa loro. Ci puliamo la coscienza e, soprattutto, non li vediamo più: che muoiano a casa loro!

Facile a dirsi! Molto più difficile a farsi.

Intento senza dubbio lodevole: aiutiamo lo sviluppo dei paesi dai quali arriva l’immigrazione, e il problema sarà risolto.
A un uomo che muore di fame, non regalare il pesce, insegnagli a pescare e mangerà per tutta la vita!
Dai loro un’istruzione e risolveranno da soli i loro problemi.
E se, in Italia, chiedi 30 euro per un’adozione a distanza, per garantire la scuola elementare ad un bambino, moltissimi rispondono.
Parliamoci chiaro: questa, con tutte le migliori intenzioni di chi dona i 30 euro, è spesso soltanto elemosina, con il vantaggio di non vedere il mendicante.
Provate a chiedere 1.000 euro per garantire la frequenza universitaria a un giovane di 20 anni.
La risposta più frequente sarà: “che si trovi un lavoro e se la paghi, l’università”; “nelle condizioni in cui sono, devono proprio andare all’università? Che imparino a coltivare bene i campi!”
L’università è un surplus, non è un bisogno primario. Quindi sono rarissime le donazioni spontanee per “adottare un universitario a distanza”.
Un discreto numero di camerunesi è venuto in Italia, negli ultimi 20 anni. Hanno vissuto in maggioranza a Torino, Milano, Padova, Bologna, Perugia, Roma. Le città che hanno le migliori università.
Eh sì, perché sono venuti in Italia a studiare, a laurearsi, a imparare a fare i medici, gli ingegneri, i dentisti, gli avvocati, gli insegnanti. Molto spesso hanno potuto farlo grazie a borse di studio, riconosciute sia dal Cameroun che dall’Italia. Esiste una buona collaborazione fra università italiane e camerunesi; ci sono programmi di scambio e lavoro comune. Naturalmente ciò comporta dei costi, per le università italiane.
Magari qualcuno incomincerà a dire: prima si devono abbassare le tasse universitarie per gli italiani e poi si potrà pensare ad aiutare gli altri.
Perché, ancora una volta, il nocciolo è tutto qui: aiutiamoli a casa loro, ma soltanto con quello che ci avanza quando avremo soddisfatto tutti i nostri bisogni e anche tutti i nostri desideri. E soltanto se non dobbiamo rinunciare a nulla.
È sempre il concetto di elemosina: ti cedo quello che a me non serve più: il vestito fuori moda o ormai diventato troppo stretto; l’acquisto sbagliato che non posso rendere; il computer che ho sostituito con quello più nuovo ed efficiente; la macchina usata da rottamare (oh già! una buona parte arriva qui!); eccetera. In pratica, regaliamo il nostro surplus o i nostri scarti. più spesso gli scarti.

Per carità, va tutto bene! I camerunesi (e certamente anche le altre popolazioni) che ricevono questi regali sono molto contenti: li cercano e li usano. Ho visto un ragazzo portare una maglietta verde con su scritto a caratteri cubitali LEGA NORD (evidentemente non serviva più o era passata di moda; certamente era uno scarto).  Gli ho chiesto se sapeva il significato di quella scritta. Mi ha risposto di sì: qualcuno gli aveva raccontato qualcosa. Ma non gli interessava: la maglietta era quasi nuova, gli piaceva il colore e quello che c’era scritto non lo capiva nessuno.
Quindi, continuate a inviare il surplus e gli scarti: piuttosto che niente, meglio piuttosto.

Ma aiutarli a casa loro, per me, significa porli nelle condizioni di arrivare allo stesso livello in cui siamo noi, non tenerli sempre un passo indietro. Ma se arrivano al nostro livello poi ci fanno concorrenza. Eccola ancora, la paura.

Recentemente mi è stato chiesto se il costo di un depliant era più economico qui o in Italia. Non ho avuto dubbi nella risposta: è senza dubbio più economico in Italia. È vero che il costo lavoro qui è molto più basso, ma c’è bisogno di più tempo per fare lo stesso lavoro. E poi: la carta è importata, gli inchiostri sono importati, le macchine sono importate, i pezzi di ricambio sono importati, l’energia in proporzione costa più che da noi. Sapete la storia della garanzia sui prodotti nuovi? Qui, scordatevela. Computer e stampanti e schermi non hanno quasi mai alcuna garanzia: se si rompono dopo una settimana dall’acquisto, sono fatti vostri.
Vogliamo aiutarli a casa loro? Proviamo ad aiutarli a mettere in piedi e far funzionare una qualsiasi impresa, per esempio una fabbrica di scatole di cartone, attraverso la quale il Cameroun non sia più costretto a importare quella merce. Cosa ci vuole? È semplice! Però, chi esporta scatole di cartone in Cameroun perde una fetta dei suoi guadagni. E così per tante altre merci, anche alimentari. Il Cameroun è un grosso produttore di cacao, molto buono. Viene esportato come materia prima e reimportato come prodotto finito.  Se si estendesse in maniera industriale la lavorazione del cacao qui in Cameroun, ci sarebbe più lavoro, ma qualcuno perderebbe una fetta dei suoi guadagni. Paura.

Ma quanti di quelli che urlano o scrivono contro l’immigrazione sarebbero favorevoli ad uno stato che si impegnasse a finanziare la creazione di una fabbrica in Cameroun, per dare lavoro ai camerunesi?
Prima pensiamo ai nostri disoccupati!!!
E allora, non lamentatevi dell’immigrazione.

Sapete, è una questione di fisica, illustrata qualche centinaio di anni fa e sempre valida: è il principio dei vasi comunicanti.
Volete trovare i “colpevoli” dell’immigrazione? Andateli a cercare fra i Romani che costruivano ottime strade e rivolgetevi anche a chi ha inventato le barche, i treni, le auto, gli aerei. Rivolgetevi a Guglielmo Marconi e all’invenzione della radio.
Tutte queste cose hanno sviluppato la “comunicazione”, intesa come possibilità di raggiungere altri luoghi o di trasferire informazioni e cose a distanza. Hanno contribuito ad abbattere confini, a far vedere a tutti come vive il vicino.

Se mettete fianco a fianco due bottiglie, una piena e l’altra vuota, la sola vicinanza non genererà alcun effetto. Se le collegate con un tubo di plastica, cioè se le mettete in “comunicazione” fra di loro, poco per volta la bottiglia piena si svuoterà fino a permettere alla bottiglia vuota di raggiungere lo stesso livello.

Quando pensate al fenomeno di immigrazione/emigrazione pensate al principio dei vasi comunicanti: una volta creata la “comunicazione”, come diavolo pensate di poterla interrompere?
E dobbiamo incominciare a renderci conto che noi, che facciamo parte del mondo ricco anche se in crisi, rappresentiamo la bottiglia piena.

1 commento:

  1. In Italia la questione della malattia a volte potrebbe servire. Dono certa che senza percepire soldi quante " malattie " x miracolo diventerebbero guarigioni! A parte la battuta, grazie sempre x gli ottimi spunti di meditazione, e per aprire un pochino di più le nostre piccole menti. Salutoni e buon lavoro. Rosella

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